Qualcosa a cui aggrapparsi
Una collezione di inizi e finali per Mette Edvardsen
Sulla mia scrivania ci sono quattro cartoline con disegni di Heiko Gölzer. Rappresentano una persona con un libro, sempre su sfondo bianco. O meglio senza sfondo, c'è solo bianco, il bianco della carta, della pagina, del nulla. La persona disegnata non sta leggendo il libro, nello spazio vuoto il libro è un appiglio a cui aggrapparsi. Vi si siede sopra con un atteggiamento assorto. Sta dritta in piedi e tiene il libro in bocca, come per rendere letterale l’idea che ogni bocca è un libro. Tenta una verticale e forse una serie completa di posizioni yoga con i libri. Alla fine si stende, usando il libro come cuscino a cui appoggiare la testa, ma la faccia è sparita – una fuga improvvisa per lasciare ancora più spazio alla mia immaginazione. Manca la quinta cartolina, cosa che lascia un buco nella mia collezione come nella mia memoria, se mai ce n’è stata una. Si è ritirata del tutto. Il libro nei disegni è generico, superfici bianche tenute insieme da sottili linee nere, un menabò.
Sulla mia scrivania sono sparsi libri e documenti. Normalmente stanno sugli scaffali insieme agli altri, nel mio archivio, con altri documenti, nel mio corpo e nella mia mente, intrecciati ad altri ricordi, altri pensieri e altre storie. Ora formano una piccola collezione con le cartoline, tutti legati al lavoro di Mette Edvardsen – per lo meno, questa è il motivo che li ha radunati sul mio tavolo. Li considero una serie di varchi per la memoria, o di trampolini per esplorare un regno immaginario – qualcosa che contiene un testo. Qualcosa a cui aggrapparsi.
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Uno è un libro completamente bianco di 256 pagine, copia esatta di un altro mio libro, per lo meno come dimensioni, peso, numero di pagine e qualità della carta. Un tempo pura potenzialità, carico della fantasia di un centinaio di libri possibili, è ora caricato con la memoria del solo libro che é diventato, e del suo processo di composizione.
O prendiamo il piccolo taccuino nero di fianco, le pagine vuote lasciate per gli schizzi. È l’unico notes che possiedo, che aspetta una storia. Un Moleskine, non senza storia, perché questi taccuini sono famosi perché lo scrittore e viaggiatore Bruce Chatwin vi ha annotato i suoi “canti”. Prendendo l’eponimo libro di Chatwin leggo: “In Francia questi taccuini si chiamano carnets moleskines: moleskine, in questo caso, è la rilegatura di tela cerata. Ogni volta che andavo a Parigi, ne compravo una scorta in una papeterie di Rue de l'Ancienne Comédie. Avevano le pagine squadrate e i risguardi trattenuti da un elastico. Sul frontespizio scrivevo il mio nome e l'indirizzo e offrivo una ricompensa a chi lo ritrovava. Perdere il passaporto era l'ultima delle preoccupazioni; perdere un taccuino era una catastrofe.”
Poi c’è un libro dalla copertina verde e la scritta lilla tenue: How To Do Things With Words. Lì di fianco uno rosa brillante con la scritta verde: How To Do Things With Art. Per ora li rimetto sulla mensola. C’è anche un libro di filosofia giallo che traccia però un altro inizio: Zur Welt kommen – Zur Sprache kommen. Giallo. E una pila di racconti di Paul Auster, Italo Calvino e Enrique Vila-Matas dove forse più tardi andrò a scavare.
Tre altre pubblicazioni colpiscono la mia attenzione. Sono tutte di Mette Edvardsen. Sono tutte bianche con il lettering nero. Il primo è un libretto di grandi dimensioni dal titolo Opening. La prima pagina dice: “Questa è una documentazione scritta, una raccolta di note e una lista di fonti, la partitura di una performance e la descrizione di Opening di Mette Edvardsen”. La seconda è un libro con la copertina bianca, vuota ad eccezione del dorso con la scritta every now and then. La terza un opuscolo con una semplice lista di parole su carta leggera che lascia intravedere le parole sottostanti. La prima è “table”, l’ultima “black”. Nel mezzo ci sono tutti i termini usati da Mette Edvardsen nella sua performance Black. Comincerò da qui, un’altra volta.
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La prima pagina contiene tredici parole, una parola per linea: “table / chair / lamp / shade / light / floor / there / here / one / two / three / steps / plant”. Per ora le parole sembrano combaciare con l’attuale situazione nel mio studio. Volto pagina. “here / there / water”. Qui, la realtà delle parole e delle cose si divide, perché sto bevendo caffè e non acqua. Lì, non sento bussare alla porta, ma lo ignoro comunque. Qualche pagina più in là leggo “sit / right / now / here / cup / coffee”. Mi suona meglio, in qualche modo giusto. Leggo le parole e anche la mia stanza, verificando se le parole esistono là fuori, che riecheggino oltre la pagina. Parole e cose.
Lentamente mi tornano i ricordi della performance, ma tento di reprimerli e continuo a leggere. “small / book / big / print / two / three / sticks / and / one / stone / dead / things”. Ora la mente va a un’altra serie di tracce tratte da Black, un’installazione nel foyer del teatro con oggetti neri posizionati secondo una griglia perpendicolare, con uno spazio vuoto. Nella pagina precedente sono incappato in un “dog”, o almeno la parola “dog”. Forse l’animale sta ancora scorrazzando per il teatro. Immagino anche lui spruzzato di vernice nera opaca. Il telefono suona e tento di ignorarlo ma mi distraggo, non riesco a sapere dove sono esattamente, dove ho la testa.
Ricomincio a leggere dall’inizio fino a “water”, il punto di biforcazione. Ora so che più avanti c’è “coffee”, ma mancano ancora alcune parole. Per esempio “jazz”, “crocodile”, “sunlight”, o “red / carpet”, senza scordare la polvere che lo ricopre e i racconti spazzati lì sotto. Nessuna attesa, al centro del libretto arriva “dust” e “speak” e persino “sing / song / say / yeah”. E poi più avanti “the / shape / quite / distinct / but / obscured / by / dust” e altre “shapes / and / thickness / of / dust”. Ora ricordo anche “tiny / particles” e cercandole ritrovo un “carpet”!
Mi tornano di nuovo in mente ricordi della performance, che tento di bloccare di nuovo per un attimo per continuare a leggere. “cup / plant / chair / window”. Guardo fuori dalla finestra e adesso li lascio scorrere. Sfoglio il libretto fino a che scovo queste parole: “fresh / air / window / on / one / side / see / nothing / there”. Guardo di nuovo fuori dalla finestra e malgrado i vetri sporchi qualcosa vedo. Niente nel testo, qualcosa là fuori. Non mi sembra giusto. Sono nei guai. Una finestra in un testo non è una finestra nel mondo e non è una finestra in teatro. Ecco il vero punto di svolta, ecco il limite. Così come un lettore o uno spettatore ama comporre le proprie esperienze, anche le parole e le cose e le loro specifiche organizzazioni mettono mano al processo, un migliaio di mani invisibili.
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I personaggi nei racconti di Paul Auster si ritrovano spesso imbrigliati in situazioni che li portano a cancellare il passato e iniziare una vita completamente diversa. Queste traiettorie casuali risuonano con la musica del caso e con i miti fondativi americani, ma in primo luogo colgono la possibilità letteraria di una vita in cui l’esperienza e le emozioni sono disgiunte dalla memoria. Mentre leggevo mi sono sempre chiesto dove vanno queste realtà, e chi sia il responsabile di questi inizi e di queste fini improvvise.
In Viaggi nello scriptorium, il signor Blank soffre di una sorta di blocco creativo, perseguitato com’è da tutto ciò che ha scritto in passato. Molti personaggi ritornano per incontrare l’autore — Blank alias N.R. Fanshaw alias Paul Auster — che per una volta è completamente vulnerabile, nel momento in cui si rende conto del tempo e del ricordo. Se Auster ha ampiamente esplorato il potere piuttosto ambiguo di scrivere per dimenticare, Viaggi nello scriptorium è una riflessione sulla violenza implicita nella professione dello scrittore. Appare chiaro che tutti questi personaggi non hanno un futuro, perché Auster non l’ha creato, ma non hanno nemmeno un passato. Erano stati creati per vivere qui e ora e liberarsi dalla struttura narrativa delle loro vite. Ora vivono nello scriptorium, una sorta di asilo dove regna l’oblio. Blank pensa che la sola possibilità per continuare a vivere sia di evitare la cura, dimenticare il passato e continuare a scrivere. No, si tratta in verità di pochi gesti, quasi una coreografia della memoria: lui che dondola sulla sedia, o scivola e pattina sui calzini di nylon, e ritorna di nuovo all’infanzia.
Leggendo le dichiarazioni di Mette Edvardsen che in Black vorrebbe “fare apparire le cose”, le ho subito associate a un altro racconto di Paul Auster che ho letto di recente. In Uomo nel buio, Auster descrive una persona che è al tempo stesso personaggio e autore, sballottato tra differenti realtà, alla fine intrappolato in una posizione impossibile che ha implicazioni sia poetiche che politiche. La visione dello scrittore inizia così: “L'ho messo in un buco. Sembrava un buon inizio, un modo promettente per far funzionare le cose. Metti un uomo che dorme in una buca, e poi stai a vedere cosa succede quando si sveglia e cerca di strisciare fuori”.
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“nothing nothing nothing nothing nothing nothing nothing nothing”. Nella performance Black, Mette Edvardsen pronuncia tutte le parole elencate nel libretto otto volte. Crea un focus particolare, in cui apparizione e sparizione, inizio e fine, sono intrecciati. Black comincia in uno spazio vuoto, una scatola nera, illuminata da una luce diffusa. Mette Edvardsen evoca un tavolo dicendo “table table table table table table table table”, sottolineandolo con la sua presenza e un gesto della mano. Segue una sedia, una lampada, piante, un cane, una bottiglia d’acqua e un tappeto. Ricordo che la mia attenzione per gli oggetti apparsi durava solo il tempo di pronunciare le parole, non entravano a fare parte della stanza. Il potere deittico delle parole mirava al qui e ora – fino all’attimo in cui la Edvardsen ha urtato contro il tavolo. “bump bump bump bump bump bump bump bump”.
Le parole, i gesti e le realtà che evocavano non coincidevano dopotutto, si erano inavvertitamente ingrossate di ricordi e proiezioni. La ripetizione e il ritmo staccato delle parole avevano disperso la promessa di narrazione, di tempo, attirando di nuovo l’attenzione sulle singole cose. Tuttavia come veicoli di attenzione, le loro tracce sarebbero perdurate nello spazio per cozzare l’una contro l’altra nella mia mente. E ogni tanto ricomparire dal nulla, in un atto performativo più che descrittivo, per colorare la situazione con la loro esistenza separata: “yellow yellow yellow yellow yellow yellow yellow yellow”.
Ogni termine conteneva un incantesimo particolare, la formula magica dell’apparizione. Indugiando sul ricordo del tavolo spinto leggermente sulla destra, rileggo le parole nell’opuscolo, sperando di ricostruire parte degli inizi e dei finali della performance. Continuo a sbattere contro i finali, realizzando come il teatro sia tutto sommato uno spazio della sparizione, dello scorrere del tempo, del ricordo, della melanconia e in definitiva un luogo tormentato dalla morte. Prima di chiudere gli occhi e di pronunciare l’ultima parola, “black”, Edvardsen ha svuotato parecchi finali, citando cose morte che non possono cambiare, non vedendo niente dalla finestra, o evocando un cadavere, per mettersi più tardi distesa e ricoprirsi il corpo reale con un tappeto di parole e lasciarsi andare a un sonno profondo con la logica capricciosa di un gioco da bambini, o scarabocchiare qualcosa su un pezzo di carta per poi accartocciarlo e quasi gettarlo nel bidone, pulire con successo una macchia di bagnato, e dire, aiutata da un chiaro gesto mimetico, “erase erase erase erase erase erase erase erase.”
Dove vanno queste realtà? Alcuni degli oggetti trovano il modo di concretizzarsi e riapparire fuori dalla scatola nera, spruzzati di nero opaco, come una natura morta nel foyer del teatro. Adesso, sono probabilmente in un magazzino da qualche parte. A parte il cane, che ancora manca all’appello. O forse hanno ripreso il loro posto e la loro funzione nella vita di tutti i giorni. In quanto parole finiscono in un libretto, un piccolo archivio che aspetta di essere fatto rivivere dai lettori. E non si deve dimenticare la mente e il corpo di tutti gli spettatori, perché i ricordi permangono.
Proprio come il fatto che Mette Edvardsen chiuda gli occhi e pronunci l’ultima parola “black” mentre lo spazio rimane illuminato è sia un finale che un nuovo inizio, perché è l’unica parola che pronuncia una sola volta, evitando le sette ripetizioni e trasformandola cosi' in un segnale che è una promessa. “black black black black black black black black”.
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Sapendo che ci sarebbe stato un cane a scorrazzare libero in questo testo e il ricordo letterario di un gatto vicino alla mia scrivania, mi sono tuffato nel racconto di Enrique Vila-Matas Bartleby & Co in cerca di un cavallo e pronto alla sorpresa. In questo libro il narratore cerca di superare un blocco creativo che gli impedisce di scrivere da venticinque anni documentando i molti finali e gli “impulsi negativi e l’attrazione verso il nulla” che popola la letteratura contemporanea e impedisce ad alcuni autori di scrivere del tutto. Ne salta fuori una raccolta di note a commento di un testo invisibile, un testo a venire.
Nella nota 28 il narratore confessa ad un amico: “Una volta trascorsi un'estate intera con l'idea di essere stato un cavallo. Al calar della sera, tale idea si faceva ossessiva. Era terribile. Appena coricavo il mio corpo umano, subito si attivava la mia memoria da cavallo.” L’amico rispose: “la cosa non mi sorprende” e gli fa notare che quella che ritiene un’esperienza esclusiva in realtà riguarda l’incarnazione di un racconto di Felisberto Hernández. Creatore di un “spazio fantasma immaginario” e di “voci soffocate”, questo inventore dell’assenza era famoso per lasciare i suoi racconti incompleti o per lo meno con finali aperti.
Riesaminando queste storie, il narratore di Vila-Matas rimane molto colpito da una in particolare: “Molti dei suoi finali incompleti sono indimenticabili. Come quello di Nessuno accendeva le lampade, dove ci dice che lui se ne andava "tra gli ultimi inciampando nei mobili". Un finale indimenticabile. A volte gioco a pensare che nessuno a casa mia accende le luci. A partire da oggi, dopo aver recuperato la memoria del racconto incompleto di Felisberto, giocherò ad andarmene anch'io per ultimo inciampando nei mobili. Mi piacciono le mie feste da solitario. Sono come la vita stessa, come qualunque racconto di Felisberto: una festa incompleta ma una festa davvero.”
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“Io sono un gatto. Un nome ancora non ce l'ho. Dove sono nato? Non ne ho la più pallida idea”, sono le parole pronunciate da Mette Edvardsen mentre lo scorso novembre nella biblioteca pubblica di Leuven, la mia città natale, recitava le prime pagine del racconto di Soseki Natsume, Io sono un gatto. Assieme ad un gruppo di persone aveva imparato un libro a memoria, per evitarne la censura, la scomparsa o la messa al rogo, come nel racconto fantascientifico di Ray Bradbury Fahrenheit 451. In veste di libri viventi camminavano nella biblioteca, conversando, leggendo e guardando fuori dalla finestra, o accompagnando un lettore verso un punto tranquillo. Perciò la stavo ad ascoltare, o meglio leggevo il racconto. Ricordo il ritmo pacato del parlato della Edvardsen, che evitava la teatralità o il modo espressivo in cui si tende a leggere le storie ai bambini. Questo ritirarsi non faceva di lei un ventriloquo, ma mi permetteva di entrare a far parte del libro e identificarmi con le avventure di un gatto che osserva la gente. Quando il gatto descrive la stranezza di trovarsi per la prima volta davanti a un essere umano, la cosa non mi ha sorpreso. Dopo mezz’ora Edvardsen ha detto: “Mi fermerei qui, se non ti dispiace”.
Passo a un altro libro e incontro un uomo che mi dice “Sono L’uomo dietro la finestra. Il mio autore è Gerrit Krol, che mi ha scritto nel 1982”. E dopo la descrizione fisica, colore, numero di capitoli e pagine, note di copertina mi ha chiesto da dove volevo iniziare a leggerlo. Dato che ho l’abitudine di leggere i libri dall’inizio, ho cominciato con la prima pagina, per continuare capitolo dopo capitolo. Adam, il personaggio principale, è un robot, nato in una piccola scatola nera, che medita sul fatto di diventare sempre più umano, cosa che non avviene senza anomalie malgrado i suoi sforzi per essere perfetto. Il linguaggio del codice informatico non lo colloca completamente in questo mondo, e quando l’hardware si consuma, finisce nel bidone della spazzatura. Conosce la poesia e le emozioni, ma la vulnerabilità rimane forse una delle cose a lui inaccessibili.
Quando è successo che una gamba gli si è inceppata impedendogli di camminare con facilità, mi sono animato e ho iniziato a scorrere il libro più velocemente, saltando di capitolo in capitolo, impaziente di leggere le parti che parlavano del camminare e dei movimenti della gamba. Il libro vivente sapeva dove erano e li ha pescati con facilità nella memoria. Ora la mia non mi aiuta a ripeterli, anche se ricordo di avere pensato a L’inquilino del terzo piano di Roland Topor, dove un arto mancante ispira una riflessione sull’identità. Ecco un brano che invece ricordo senza bisogno di leggere: “Pensavo. Un dente è parte di noi, non è vero? Come… anche della nostra personalità. Mi ricordo la storia di un uomo che, avendo perso un braccio in un incidente automobilistico, aveva espresso il desiderio di seppellirlo in un cimitero. Le autorità avevano rifiutato. Il braccio era stato cremato, il giornale non diceva cos'era successo in seguito. Avevano rifiutato alla vittima anche le ceneri del suo braccio? Con che diritto? A partire da che momento, mi domando, l'individuo non è più ciò che crede di essere?”
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Gironzolando nella biblioteca dopo che Il tempo si era addormentato nel sole pomeridiano mi sono divertito a fantasticare sui libri che avrei voluto imparare a memoria e immagazzinare parola per parola nella mente e nel corpo. Ho subito individuato due candidati, non sono i miei libri preferiti, ma libri che credevo che in qualche modo potessero creare una prospettiva sull’incarnazione dei libri, sul trasformarsi in un libro. Visto che non ho ancora preso la decisione finale, non ho cominciato a impararne nessuno dei due.
Guidato dall’interrogativo su come stare al mondo, Italo Calvino in Palomar si cimenta in descrizioni di esperienze visive, commenti antropologici e riflessioni che si avventurano nello speculativo, il tutto organizzato con ordine in brevi capitoli che seguono regole specifiche. Il protagonista parte da una spiaggia, con lo scopo di leggere le onde o meglio di osservare da vicino e analizzare una singola onda, si ritrova a un certo punto a nuotare in mare. Immerso nel sole di fine pomeriggio che sta per tramontare si domanda se i raggi di luce esistono là fuori o solo nella sua mente, e mentre la bracciata si fa più lenta e stanca, i suoi pensieri percorrono un mondo senza più corpo fino a che i rottami che fluttuano lo fanno sentire un cadavere. “Il signor Palomar pensa al mondo senza di lui: quello sterminato di prima della sua nascita, e quello ben più oscuro di dopo la sua morte; cerca di immaginarsi il mondo prima degli occhi, di qualsiasi occhio; e un mondo che domani per catastrofe o lenta corrosione resti cieco. Che cosa avviene (avvenne, avverrà) mai in quel mondo?”
Ho davanti a me due copie di Palomar di Calvino, tradotte in inglese e olandese. Che lingua devo scegliere? Sfortunatamente non leggo né parlo italiano, o meglio non ne capisco le parole e mi ritroverei curiosamente fuori sincrono se imparassi a memoria il libro. Forse sarebbe un’esperienza simile all’aneddoto che Laurie Anderson racconta spesso tra un pezzo e l’altro di Live at Town Hall. “Ultimamente sto facendo molti concerti in francese. Sfortunatamente non lo parlo. Lo memorizzo. Voglio dire, muovo la bocca senza capire quello che dico. E’ come quando fai colazione la mattina presto mezzo addormentato e mentre mangi i cereali fissi le scritte sulla scatola, senza leggerle esattamente, solo guardando più o meno le parole. E improvvisamente, per qualche ragione ti scatta l’attenzione e ti rendi conto che quello che stai leggendo è quello che stai mangiando… ma ormai è troppo tardi”.
Prendo il libro con la copertina gialla, Zur Welt kommen – Zur Sprache kommen del filosofo Peter Sloterdijk. Dato che contiene una serie di lezioni, immagino che le parole di Sloterdijk mi usciranno con una certa fluidità dalla bocca. O forse ogni tanto incespicheranno, perché il tedesco non è la mia lingua madre dopotutto, anche se lo leggo, lo parlo e lo capisco. Le parole mi possono spiazzare ma il linguaggio ti può anche collocare nel mondo. È esattamente questa la tesi del filosofo sul significato della letteratura, che è indebitata con il “testo preletterario dell’esistenza”. Mentre Palomar nuota nel mare affrontando la morte, Sloterdijk va da tutt’altra parte, desideroso di fluttuare nell’utero ma affrontando l’impossibilità di essere presente al proprio inizio, alla venuta al mondo e all’avvento del linguaggio. Sono gli altri che ci portano a parlare, aiutati da una lunga tradizione di racconti: non iniziano, veniamo iniziati. “L’uomo colma la lacuna dell’origine con le storie, e comincia ad essere invischiato nel racconti, perché è un essere che non può riconoscere le sue origini”. Tra la nascita fisica e quella narrativa secondo Sloterdijk ci sono “le notti buie e mute del neonato”, che risuonano nella vita e nei racconti di ciascuno come memoria di un silenzio profondo.
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Il libro bianco ha viaggiato in una piccola borsa di carta marrone che mi aiuta a portalo a casa dopo la performance every now and then di Mette Edvardsen. Ho tenuto anche la borsa, una copia autentica delle borse di carta che appaiono in tre dimensioni, small, large e extra large nelle foto del libro. Aprendolo, la copertina bianca si trasforma in una doppia pagina nera, un foglio nero abbinato alla foto di un pavimento nero e alle quinte che ricordano la scatola nera di un teatro. Sono un lettore o uno spettatore o entrambe le cose? Incontro due protagonisti in piedi che guardano e camminano, li seguo in una passeggiata, non tanto dentro quanto attraverso il libro, da sinistra a destra, da copertina a copertina.
È un libro di sole foto, talvolta una pagina vuota o colorata, non ci sono scritte, a parte il titolo sul dorso, every now and then. Anche quando i protagonisti prendono un microfono, il libro rimane curiosamente silenzioso. Girando le pagine ricordo il rumore di un gruppo nutrito di spettatori con il libro in grembo, che sfogliavano le pagine, seguendo diligentemente lo svolgersi della performance, accingendosi ai loro viaggi mentali passando da scene fotografate a scene rappresentate, scorrendo le pagine velocemente in cerca di coincidenze e rallentando di nuovo se sorpresi o quando i performer sul palco attirano la loro attenzione. Il suono di circa un centinaio di persone che sfogliano le pagine era la traccia uditiva di come ciascuno fosse intento a comporre una propria esperienza, saltando tra i segnali d’attenzione a disposizione, osservando le loro decisioni per tutto il tempo – un’agitazione rumorosa in sé, che smuove l’immaginazione nello spazio condiviso del teatro. Ora sono solo con il libro, colpito dal silenzio del microfono, in basso la pagina è vuota e gli oggetti sparsi in giro, tutto in contrasto con i suoni delicati del mio sfogliare le pagine.
Una sedia, una pianta, una mela, una bottiglia d’acqua, un notes, una tazza – come tracce di performance passate, tutti questi oggetti così come le azioni che offrono e i ricordi che veicolano, sono spazzati sotto il tappeto, avvolti dallo spazio, inghiottiti da una pagina nera. Si arrendono alla pagina bianca, a nuovi oggetti, a camicie colorate e pagine colorate. Bianco. Grigio, Rosso, Verde, Giallo, Blu. Una volta sgomberato tutto, l’agave tagliata per buona parte del libro, appare per la prima volta per intero, come un nuovo inizio. Poi, quando le luci si abbassano la pagina diventa di nuovo nera, e i protagonisti ritornano per fare un inchino.
Il libro non contiene credits, ma presenta i protagonisti e tutti gli oggetti in fila, dal microfono muto al mucchio di carta bianca a un rotolo di scotch blu. C’è un oggetto che deve essere apparso sia nel libro che nella performance every now and then senza che io la notassi: una busta marrone imbottita, del tipo di cui era piena la performance di gruppo di Mette Edvardsen or else nobody will know. È una lettera senza indirizzo, una sorta di messaggio in bottiglia, alla deriva nel teatro e nel libro, in attesa di un destino incerto, o forse di trasformarsi in una lettera morta.
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Leggendo la sceneggiatura di Opening, mi aspettavo che mi trasportasse indietro di sei anni al teatro Hebbel di Berlino, ma non è stato così. I miei ricordi sono confusi e le parole esigono attenzione per se stesse. Sono sempre alla mia scrivania, e guardo ogni tanto dalla finestra, in cerca di qualcosa, o leggo, in cerca di qualcosa a cui aggrapparmi. “Enter. Blackout. Exit. Lights. Enter. Look out. Blackout. Exit. Enter with lights. Look out. Stop front. Blackout. Exit. Enter. Stop front. Wait. Lights. Blackout stage left. Wait. Lights.” Entrate e uscite, suoni e silenzi, cambi di luce e blackout, aperture e morti. BANG!!! Un’esplosione mi sveglia e decido di non aspettare il blackout finale. Invece, “Ho un attimo per me stessa tra le quinte mentre cambio velocemente le scarpe verdi con quelle nere. In teatro il verde porta sfortuna. Mi hanno detto che in Spagna lo porta il giallo.”